Algoritmi al servizio del recruiting o utilizzati come datori di lavoro e dotati di potere direttivo.
Algoritmi in grado di controllare i lavoratori e fornire al datore di lavoro un quadro dettagliato del comportamento dei dipendenti.
Queste sono oramai le tante tematiche che oggigiorno mettono a dura prova il mondo del lavoro.
La sorte dei diritti dei lavoratori sta affrontando un periodo di profondo mutamento, tanto repentino quanto imprevedibile, dovuto all’impatto dei nuovi sistemi di intelligenza artificiale sul concetto di “lavoro” stesso. Essenziale è quindi che le aziende si dotino di un sistema atto a prevenire il rischio di commettere quei reati che, connessi all’utilizzo delle nuove tecnologie, possono essere imputati ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001.
Infatti, sebbene da un lato i vantaggi che l’intelligenza artificiale porterà alle aziende siano molteplici, come ad esempio la maggior efficienza, il calo di attività ripetitive e una migliore esperienza dei clienti, dall’altro lato si corre il rischio di perdere l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo una persona fisica può garantire, un sistema basato su algoritmi potrebbe, infatti, non essere in grado di fornire una motivazione alla base delle sue decisioni.
A tal proposito, una recente sentenza del TAR, Lazio sent. Nr. 10964/2019 REG. PROV. COLL., 13.09.2019., ha dichiarato l’ammissibilità del ricorso presentato da un gruppo di docenti per l’annullamento di un’ordinanza ministeriale che obbligava gli stessi ad assumere posizioni lavorative in deroga al principio di parità di trattamento.
L’intera procedura di assegnazione veniva infatti affidata ad un algoritmo, il quale, in quanto meccanismo informatico del tutto impersonale, non disponeva delle capacità valutazionali indispensabili per pronunciarsi in merito alle singole figure professionali.
Secondo i giudici, “gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificati e compressi soppiantando l’attività umana con quella impersonale”.
L’autorità giurisdizionale, inoltre, rilevava nella procedura adottata dall’algoritmo una frustrazione delle garanzie processuali “laddove vi è assenza di motivazione e, dunque, l’impossibilità di risalire all’iter logico- giuridico seguito dall’amministrazione nel processo di selezione”.
D’altro canto, potrebbe sostenersi che il problema non risieda nell’uso dell’intelligenza artificiale in se’, ma nella totale devoluzione delle procedure a meccanismi impersonali. Si pensi, ad esempio, all’attuale questione sollevata dai riders contro quella che viene definita “la schiavitù dell’algoritmo”, ossia, il sistema di selezione dei riders effettuato da un algoritmo sulla base del solo business.
Alla luce di quanto sopra esposto appare evidente il vuoto normativo che, ad avviso di chi scrive, necessita di essere colmato da disposizioni efficaci.
Il fenomeno degli algoritmi, con le sue innumerevoli implicazioni giuridiche, non va di certo contrastato.
Come ogni innovazione necessita di una costante supervisione, pertanto, sarà indispensabile che le aziende che vorranno dotarsi di un sistema basato sull’intelligenza artificiale ricorrano alla predisposizione di meccanismi atti a contrastare tutti gli illeciti che ne deriverebbero: dalla violazione delle disposizioni sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori alla protezione dei dati acquisiti dalle piattaforme digitali.